Il corpo nudo: intima espressività
Le fotografie di Erica Bardi parlano di una profondità intima, fatta di luci, di ombre, di rimandi, ed espressa tramite il mezzo del corpo. Il nudo visto dal suo obbiettivo diventa così un racconto che spesso sostituisce il volto, un chiaroscuro di sentimenti e di emozioni. Le forme diventano una geografia del sentire che racconta di una espressività piena che basta a se stessa.
PRESENTAZIONE
– Allora… raccontaci un po’, da dove vieni, chi sei, quanti anni hai?
Mi chiamo Erica Bardi, sono nata a Napoli il 28/09/98 e ho ventidue anni. Ho frequentato il Liceo Scientifico G. Mercalli nella mia città e successivamente ho iniziato un percorso accademico presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, indirizzo pittura, abbandonato un anno dopo per trasferirmi all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano (proseguendo il triennio di pittura), dove attualmente vivo.
– Di cosa ti occupi?
Ho conseguito la laurea in pittura all’Accademia e successivamente ho deciso di specializzarmi nella fotografia, interesse nato sin da piccola grazie alle influenze della mia famiglia. Attualmente frequento un corso biennale di fotografia presso il Cfp Bauer di Milano; si può dire che mi occupo e spero di occuparmi anche in futuro di fotografia.
INTERESSI
– Ti piace la musica? Hai un cantante, gruppo preferito?
Da piccolina ho iniziato ad appassionarmi alla musica e ho suonato diversi strumenti, dal basso elettrico alla chitarra al pianoforte, ma non si può dire che al momento mi ci dedichi attivamente. Ho il brutto vizio di essere restia a conoscere nuove canzoni e gruppi, bazzico sempre su quelli che ascolto da almeno dieci anni a questa parte; ho un amore incondizionato per la musica italiana, in particolare quella di De Andrè e Battiato, ma sono cresciuta con i Blink-182 e i Linkin Park, mentre in adolescenza mi sono affezionata tantissimo a Smiths, Beatles e Pink Floyd.
– Un film che secondo te tutti dovrebbero vedere?
Midnight in Paris, non è il film più profondo o dalla trama più avvincente, emozionante e riflessiva del mondo, ma è il mio preferito e quello che consiglio sempre a tutti. Apprezzo tanto il cinema di Woody Allen, i suoi film sono bellissimi e questo è uno dei pochi che ho visto più di una volta (l’ho visto almeno venti volte ma dire “più di una volta” mi fa sembrare meno maniacale); se gli altri alla lunga stancano, questo per me non lo fa mai, bisogna saperlo prendere. Ero alle medie quando lo vidi al cinema e accese il mio interesse per tutto ciò che riguarda l’arte francese, dalla letteratura alla pittura.
– Qual è la forma d’arte che preferisci (da andare a vedere/a cui assistere: fotografia, pittura, scultura, performance, ecc…)? C’è un artista contemporaneo che consideri assoluto o che sia una fonte d’ispirazione?
Non so rispondere con sicurezza, ho un’opinione molto variabile. In generale vado molto più spesso a mostre di pittura, fotografia e installazioni, forse perché sono anche le più frequenti. Apprezzo tantissimo la performance e quando posso cerco di documentarmi il più possibile tramite fotografie o video, se non posso (o non ho potuto) assistervi in prima persona. Mi piace particolarmente l’arte di Marisa Merz, le performance di Christian Jankowski e Marina Abramović; in particolare – fotograficamente parlando – quelle di quest’ultima mi danno moltissimi spunti.
LAVORO
– Come nasce il tuo interesse per la ricerca artistica?
L’interesse per la fotografia è nato da piccolina, ma fino al secondo anno di Accademia ho sempre avuto un approccio un po’ troppo didattico e ho faticato a venir fuori dallo schema dei “compiti” fini a se stessi per entrare in un ambiente di ricerca più ampio. Probabilmente il confronto (e a volte scontro) con professori e colleghi ha contribuito molto ad avviarmi a un’analisi più consapevole del mio lavoro.
– Da dove ti è venuta l’idea e come ci sei arrivata?
La scelta di lavorare con il nudo mi è venuta spontanea; ero partita da un interesse per la persona, dando scontato che il soggetto chiave fosse il volto, poi ho capito che era secondario, che in realtà il volto lo apprezzavo solo quando era in relazione a un corpo, ma un viso con un corpo vestito cela un sacco; un volto, o meglio un corpo, completamente nudo è diverso, mostra più facilmente i propri atteggiamenti e dà delle sensazioni totalmente diverse, più intime. Addirittura ho iniziato a eliminare il volto per lasciare che fosse il corpo a parlare e comunicare, e ora lo uso quasi come unico mezzo espressivo.
Nell’ultimo periodo ho lasciato un po’ più libero il mio lavoro mantenendo la costanza del corpo, ma approcciandomi a esso diversamente. In sintesi potrei dire che lo sto studiando per capire cosa voglio davvero indagare: un’espressività, una matericità, una geometricità… non lo so ancora.
– Un’emozione che sapresti nominare mentre lavori?
Dipende dal lavoro, se penso che verrà bene o se sono scoraggiata, o dalla persona con cui sto lavorando, se quest’ultima è o meno a suo agio… ci sono tante cose. Certamente se ho già lavorato altre volte con la persona sono molto più tranquilla, c’è un ambiente molto sereno e divertente, soprattutto quando inizio a proporre pose assurde (che sono le mie preferite). In generale, se vedo che tutto procede bene, mi gaso davvero molto e non vedo l’ora di vedere o far vedere il lavoro finito; al contrario, se sono già insoddisfatta in corso d’opera faccio fatica a finire.
– Che cosa sentivi necessario: fare qualcosa di diverso oppure andare oltre? Avevi un’idea chiara di quello che bisognava fare?
Non avevo nessuna idea, non sapevo niente, ho iniziato tutto casualmente e c’è veramente molto poco di ponderato in quello che faccio. Mi sento spesso in difetto rispetto agli altri proprio per questo: se parto da un’idea poi finisco facendo tutt’altro. A volte è una figata, perché vengono fuori cose che non mi aspettavo, altre volte rimango delusissima e alle domande “Cosa volevi fare? Che intento avevi? Cosa vuoi esprimere?” spesso non so cosa rispondere.. si può dire che sentivo e sento il bisogno di fare qualcosa e basta, non so cosa, probabilmente me ne rendo conto solo dopo averlo fatto.
– Prima di cominciare a lavorare hai già chiara l’idea di come sarà il tuo lavoro? Oppure è quando cominci che hai un’idea di quello che farai?
Pochissime, rarissime volte sì. Ci sono fotografie che mi vengono in mente e che devo appuntare per non dimenticarle assolutamente, anche se mi sono resa conto che spesso quelle più chiare nella mia testa alla fine sono le meno riuscite. Preferisco lavorare senza una direzione precisa, scegliendo man mano su cosa focalizzarmi o addirittura ritagliando dalle foto già ultimate dei dettagli che mi sembrano interessanti, come imput per le volte successive.
– Quand’è che senti che un lavoro è finito?
Probabilmente capita quelle poche volte in cui ho uno schema di ciò che devo fare, quando so esattamente come deve evolvere la narrazione del lavoro: c’è un inizio, uno sviluppo e una conclusione. Ecco, peccato che mi capiti veramente poco spesso; la maggior parte delle volte porto avanti lavori che concluderò chissà quando. Le foto sono oggetti finiti: scatti, stampi e sono lì, e questo rende il tutto ancora più complicato, perché verrebbe spontaneo pensare “Ecco, queste sono le foto, questo è il lavoro”, invece nel mio caso ho foto scattate un anno fa che ancora sono sconclusionate, gli manca qualcosa, quindi so già che prima o poi le riprenderò e continuerò il lavoro.
– Ti capita di doverti fermare mentre stai lavorando, perché non hai in casa il tipo di pezzo o materiale che ti serve, e di dover aspettare finché non lo trovi?
Quasi mai, se capita cerco sempre di costruire qualche accrocchio per venirne fuori, a meno che non mi serva proprio quell’oggetto. Solitamente, però, cerco di preparare tutto prima; a dispetto del resto del mio lavoro, su questo sono abbastanza maniacale e meticolosa.
C’è da dire anche che non tutto dipende da me: se io fotografo è perché dall’altra parte c’è qualcuno, o qualcosa, che si sta lasciando fotografare; se quel qualcuno improvvisamente ha un imprevisto o decide di smettere io non posso farci molto, dovrò arrangiarmi in altro modo e fermarmi per il momento.
– Raccontaci come nasce un tuo lavoro. Parti da un’idea, una sensazione o che altro?
Spesso nasce dall’osservazione. Vedo un film, c’è una luce o un’inquadratura particolare che mi piace e inizio a macchinarci su. Allo stesso modo vado a un museo, vedo un quadro o una scultura e iniziano a venirmi idee. Altre volte è l’osservazione diretta con il soggetto quando sono già in fase di scatto. Magari parto da una singola idea e sviluppo il tutto sul momento, è un lavoro di scambio tra me e il soggetto, lo trovo più onesto. Come se la macchina fotografica indagasse e scoprisse piano piano ciò che sta scattando.
– Hai fatto un percorso all’accademia di belle arti; come descriveresti questo viaggio, come ti sei trovata? Immaginiamo che questo percorso ti abbia lasciato qualcosa, degli strumenti di lavoro che utilizzi o delle influenze particolari.
Sì è così, ma è inevitabile, ogni esperienza influenza e lascia qualcosa al diretto interessato, se poi si tratta dell’Accademia, quindi del luogo di studio e di vita il tutto diventa ancora più accentuato. L’Accademia non si limita alle ore di lezione ma ti dà la possibilità di confrontarti con tante persone, professori in primis, arricchendo il tuo bagaglio.
Nel mio caso ciò che l’Accademia mi ha lasciato sono state la capacità e la voglia di mettermi in discussione, nonché la certezza che c’è SEMPRE bisogno di un confronto e di un occhio rivolto al mondo esterno, a ciò e chi ci ha preceduti e a chi opera nel nostro stesso contesto. E poi è proprio in Accademia che la mia passione latente per la fotografia è scoppiata; sì studiavo pittura, ma con il tempo ho capito che il mondo dell’arte non è chiuso e non funziona a compartimenti stagni e che certamente il mio percorso mi sarebbe tornato utile in un filone dell’arte così apparentemente diverso dalla pittura come la fotografia, e così è stato.
– Qual è il tuo lavoro che finora è stato più apprezzato? E quale quello che tu preferisci?
Penso sia difficile parlare di lavoro. Mio malgrado non ho mai sviluppato un progetto ampio e che ha occupato tanto tempo nel mio periodo di attività, posso piuttosto parlare di una ricerca continua che tocca diversi punti e si sviluppa in più scatti. Forse, però, l’unico che posso definire effettivamente “lavoro” è una fanzine realizzata per una verifica di fine anno a giugno scorso. Si chiama “Foto di famiglia” ed è un racconto sul trascorrere del tempo che ha come protagonisti i miei famigliari. Non so dire se sia il più apprezzato, ma a me dà un’idea di parziale completezza. Dico parziale perché non si sa mai, magari prima o poi lo riprendo, lo modifico o decido di continuarlo… E poi l’ho letteralmente assemblato con le mie mani in tutte le sue parti, quindi anche solo per lo sforzo e gli esaurimenti nervosi che ne sono conseguiti devo dire che è il mio preferito.
INTERAZIONE CON IL MONDO ESTERNO
– I social sono ormai una piattaforma indispensabile per pubblicare i propri lavori ed essere conosciuti; tu come vivi questa dimensione, e soprattutto, quanto la reputi importante per ciò che fai?
Ho sempre trovato i social di un’utilità pazzesca! Con tutte le loro limitazioni restano, secondo me, il mezzo più efficace per diffondere il proprio operato. Non condivido le politiche di molti di essi, per quanto riguarda la censura soprattutto, ma ci sono molte piattaforme (meno conosciute purtroppo) create appositamente per gli artisti, che secondo me dovrebbero ottenere più visibilità.
Certamente sono limitanti per alcuni tipi di arte: le durate dei video sono, quasi sempre, limitate; la riproduzione fotografica mortifica, alle volte, opere pittoriche o scultoree che certamente non ottengono la resa corretta attraverso lo schermo di un telefono o di un computer.
Detto questo, la mia posizione è la seguente: un social, proprio per la facilità con cui ognuno può accedervi e fruire dei contenuti, può essere un mezzo estremamente utile per diffondere l’operato e le idee di chiunque, artisti compresi (dico può essere perché non sempre viene sfruttato in tutte le sue potenzialità). In modo parziale, certo, come un assaggio, ma grazie a essi io dall’Italia posso scoprire le opere di un perfetto sconosciuto dall’altra parte del mondo, ed è bellissimo.
– Sei stata a Milano, come ha influito su di te questa città? Il luogo in cui ti trovi ha un’influenza su di te e su ciò che produci?
Assolutamente sì. Milano è una città artisticamente molto molto attiva, che ha molto spesso a che fare con eventi legati a svariate forme d’arte e che concepisce all’interno delle sue gallerie mostre estremamente interessanti. Magari possiede un patrimonio storico inferiore a quello di altre città italiane che hanno di più da offrire, ma sfrutta ciò che ha e, secondo me, è un gradino portante che collega l’Italia al resto dell’arte europea e mondiale. Prima di venire a vivere qui, probabilmente anche perché ero più piccola, andavo a vedere poche mostre e non ero così interessata a conoscere il panorama dell’arte contemporanea.
– Quali sono i tuoi prossimi obiettivi e progetti?
L’unico obiettivo fisso che ho per il momento è finire gli studi per poter inserirmi al più presto nel mondo lavorativo. Probabilmente è una cosa che potrei fare anche ora in corso di studi, ma non mi sento prontissima e so che probabilmente finirei per non riuscire bene in nessuna delle due cose. Intanto continuerò con i miei progetti e la mia ricerca.
– Infine, ci indicheresti tre giovani artisti che stimi ed ammiri a Milano?
Tutt’e tre fotografe: Carolina Amoretti, Giulia Bersani e Zoe Natale Mannella. Sono ovviamente diverse tra loro ma in ognuna ritrovo un punto d’interesse che cerco di indagare anche nel mio lavoro: sarà la presenza del corpo o l’attenzione ai suoi dettagli, probabilmente. In ogni caso non mi stanco mai di vedere i loro lavori, li trovo di grandissimo impatto.
Ringraziamo Erica per aver risposto alle nostre domande, potete continuare a seguirla sulla sua pagina Instagram
Venticento Art magazine http://venticento.altervista.org/