Esperienza del conosciuto
Le opere di Giulio Plodari, studente dell’accademia di Brera, contengono ricordi ed echi della sua infanzia, dalla scelta del supporto, alla lavorazione della tavola, sino ai soggetti. Tutto converge nell’esperienza del conosciuto, traducendosi in una grammatica figurativa che ha molto del caos espressionista. E’ così che nelle opere di Giulio la vita quotidiana si traduce in arte.
PRESENTAZIONE
-Allora… raccontaci un po’ da dove vieni, chi sei, quanti anni hai?
Sono Giulio Plodari, ho 21 anni, vengo da un piccolo paesino della zona ovest di Milano. Da Ottobre 2020 frequento l’Accademia di Belle arti di Brera dopo un anno preso come momento di riflessione ed impegnato ad approfondire gli studi di danza.
INTERESSI
– Un film che tutti dovrebbero vedere?
Suspiria di Luca Guadagnino.
-Qual è la forma d’arte che preferisci? (da andare a vedere/ a cui assistere: fotografia, pittura, scultura, performance, ecc..) C’è un artista contemporaneo che consideri assoluto o che sia una fonte d’ispirazione?
Non potrei definire quale tipologia d’arte preferisco, trovo però più interessante quando, andando a visitare una mostra il percorso espositivo risulti coinvolgente ed esaustivo (es. “Post Zang Tumb Tuuum” Fondazione Prada 2018, “Remains” Sheela Gowda, Hangar Bicocca 2019). Due artisti che considero ottimi sono Damian Jalet e Dimitri Papaioannou.
-C’è un momento della giornata che ti piace particolarmente?
Le ore poco successive dopo il tramonto d’estate.
LAVORO
-Come nasce il tuo interesse per la ricerca artistica?
L’interesse per la ricerca artistica nasce dall’esigenza di voler utilizzare i lavori come dialogo di ricordi, sensazioni ed esperienze, dovuto soprattutto ai giorni interminabili passati a casa durante le varie quarantene consecutive.
-Da dove ti è venuta l’idea e come ci sei arrivato?
L’idea è venuta dopo un periodo di grande riflessione su cosa volessi raccontare, riflessione che nasce anche grazie ad un percorso psicologico terapeutico intrapreso e ora terminato dal quale ho raccolto la conoscenza dei processi e l’enorme complessità dei comportamenti, l’intreccio degli elementi ed il risultato che provocano, sempre e comunque personalmente. Inoltre, l’uso del legno come materiale di supporto e la preparazione di gesso a vista, hanno origine dal volere ricreare quella che era un’esperienza d’infanzia. Da piccolo mia madre aveva dato il permesso a me e mia sorella di poter scrivere e disegnare su un muro bianco in casa dove anche lei stessa interveniva, è la condivisione della superficie e ciò che la superficie racconta la cosa che più porto nel cuore. Non ho mai la pretesa di parlare dell’universale o di cose di cui non ho esperienza o non conosco.
-Che cosa sentivi necessario: fare qualcosa di diverso, oppure andare oltre? Avevi un’idea chiara di quello che bisognava fare?
Non sentivo la necessità di fare qualcosa di nuovo o diverso, sentivo la necessità di recuperare dei linguaggi che mi hanno “formato”, da Casorati a Schiele, è più una necessità di “ritorno all’ordine espressionista” che parla del caos della vita ed al contempo la brama di stabilità e chiarezza. In questo caso e solo questo, come piccola nota, si parla di “universalità” nei miei lavori che si traduce nel linguaggio non nella narrazione.
-Prima di cominciare a lavorare hai già chiara l’idea di come sarà il tuo lavoro? Oppure è quando cominci che hai un’idea di quello che farai?
Quando inizio un lavoro ho chiara la composizione generale che però può variare in corso d’opera.
-Che ruolo svolgono i titoli per te? E quando li assegni? Di solito i titoli vengono prima o dopo che hai finito il tuo lavoro?
I titoli hanno un ruolo importantissimo, devono portare alla riflessione, devono essere decifrati, non devono tradurre l’immagine, devono accompagnare lo spettatore a prendere per mano la narrazione. Spesso li assegno a lavoro finito, hanno bisogno di tempo, devono suonare bene e devono arrivare al punto.
-Quale lavoro secondo te funziona di più rispetto agli altri?
Il lavoro che più porto nel cuore è “Riposo nella solitudine dell’anno”.
-Raccontaci come nasce un tuo lavoro. Parti da un’idea, una sensazione o che altro?
Un lavoro nasce sempre da un’esperienza che in un determinato momento riaffiora e sento l’esigenza di raccontarla, mi è capitato anche di vedere una composizione utile alla narrazione del ricordo e utilizzarla.
-Qual è il tuo lavoro che finora è stato più apprezzato? E quale quello che tu preferisci?
Il lavoro “più apprezzato” è “Chiedo scusa per quella notte”, è stato abbastanza difficile da elaborare. Nasce da un’esperienza dura vissuta con mia sorella qualche anno fa, e solo ora mi sono sentito di dichiarare la mia poca presenza ed il mio poco sostegno durante un periodo difficile da lei vissuto ed in particolare la difficoltà di un episodio avvenuto una notte. Il lavoro che preferisco è “Ultima cena”, il racconto di un’amicizia che ha portato a vivere una vera e propria ultima cena, sfaldando i rapporti e gli equilibri.
INTERAZIONE CON IL MONDO ESTERNO
-I social sono ormai una piattaforma indispensabile per pubblicare i propri lavori ed essere conosciuti; tu come vivi questa dimensione, e soprattutto, quanto la reputi importante per ciò che fai?
I social li vivo come una piccola e digitale mostra, li reputo importanti ma non totalizzanti.
-Quali sono i tuoi prossimi obbiettivi e progetti?
I miei obbiettivi ora sono quelli di poter avere l’opportunità di far vivere i miei lavori in uno spazio espositivo reale da poter fare respirare e condividere con le carni le esperienze.
Ringraziamo Giulio per aver risposto alle nostre domande, continuate a seguirlo sul suo profilo Instagram
Venticento Art Magazine http://venticento.altervista.org/