Un corpo che si definisce
Martina Rota è una giovane artista appena laureata alla Accademia di Brera che ricerca i linguaggi del corpo secondo ogni piccola sfumatura, rendendolo oggetto e protagonista di una ricerca spaziale che diventa ricerca esistenziale.
INTRODUZIONE
Raccontaci un po’ da dove vieni, chi sei?
Mi chiamo Martina Rota e sono nata in via Maivista senza numero, in un piccolo paese della Val Brembana.
Di cosa ti occupi?
Occupo il tempo cercando di assecondare ogni mio desiderio, il mio lavoro è tutto quello che amo fare, faccio arte perché penso sia un bel modo per stare col mondo e perché è tutto quello che posso fare.
Ti piace la musica, hai un cantante, gruppo preferito?
Credo che la musica sia uno strumento potentissimo, che andando oltre la componente visiva che non le appartiene, riesce continuamente a farci vibrare. Non ho nessun cantante preferito, cambio registro a seconda del meteo.
“Check the sun under yout skin”, 2019[/caption]
C’è una forma d’arte che preferisci? C’è un artista contemporaneo che consideri assoluto o una forma d’ispirazione?
Assolutamente no, l’importante è la qualità. Gli artisti contemporanei che nel ultimo anno mi hanno lasciato molto sono Laure Provoust con un lavoro per il padiglione Francia all’ultima Biennale che mi è rimasto nel cuore e Alessandro Sciarroni con la sua ultima creazione Augusto.
Un film che secondo te tutti dovrebbero vedere?
Guardo raramente film, odio stare seduta per più di due ore davanti a uno schermo.
C’è qualche altro interesse particolare che ti contraddistingue e di cui vorresti parlarci?
Sono estremamente curiosa e in quanto tale ho vari campi d’interesse, sono molto affascinata dalla scienza in particolare l’ecologia, l’erboristeria, la medicina, la fisioterapia, l’etnografia, la criminologia, lo spazio. Se non potessi fare l’artista probabilmente sarei un anatomopatologo o una spia della Cia.
Martina Rota, performance[/caption]
Come nasce il tuo interesse per la ricerca Artistica?
Penso che l’interesse sia una conseguenza di una necessità, qualcosa che si avvicina molto di più a una vocazione.
Raccontaci come nasce un tuo lavoro. Parti da un’idea, una sensazione o che altro?
Entrambe le cose, che nascono in momenti diversi.
Molto spesso accade che più ci penso più mi blocco, mentre se rimango nella pratica di un fare che sia pulire il pavimento o uscire col cane d’improvviso arriva, comunque cerco sempre di stare in ascolto della realtà in cui sono immersa e della mia pancia.
C’è un artista più di altri che consideri un modello più degli altri?
La mia coppia del cuore sono Felix Gonzales Torres e Louise Bourgeois.
“Twelwe times, togheter”, 2018[/caption]
Hai fatto un percorso in Accademia come ti sei trovata?
Sono arrivata a Brera dopo una serie di scelte sbagliate, che credevo giuste. Brera era la mia ultima scelta, l’ultimo scalino dei miei desideri. Ciò nonostante il primo giorno è stato il mio primo amore. In Aula 6 ho incontrato Fabrizio Gazzarr, docente di problemi espressivi del contemporaneo ricordo ancora il suo sguardo vispo, mentre divertito, ma totalmente serio indicava cinque di noi che l’indomani avrebbero dovuto presentare un lavoro. Erano le 14 del pomeriggio, avrei preso il treno delle 18 questo significava che avevo meno di 12 ore per fare un lavoro da presentare al corso l’indomani. Una bella sfida, il giorno dopo ho presentato la mia prima performance, aveva un titolo bruttissimo; ma è stato da quel momento che ho capito che forse potevano essere tre anni buoni per imparare qualcosa, bastava volerlo, volerlo a tutti i costi e non aver paura di fare domande, sbagliare e bruciarsi le mani col fuoco. Molti arrivano in Accademia senza un progetto e passano tre anni nel vuoto perché si immaginano che qualcuno li prenderà per mano indicandogli la via giusta da percorrere. Questo non accade, ma è comunque un ambiente protetto, molto ricco di stimoli, dove potersi esporre e farsi le spalle. “Una palestra” per citare quella che in quegli anni è stata l’aula 1 di Maurizio Arcangeli; entrambi Gazzarri e Arcangeli sono stati per me punti di riferimento, con il loro metodo “Garuttiano” mi hanno permesso di coltivare negli anni, anche con lacrime e piccole delusioni, gli strumenti per guardare ogni lavoro con criticità. Rispetto al contemporaneo, alla storia dell’arte, alla politica, e al umano, senza il quale Brera sarebbe un posto meno speciale.
Martina Rota[/caption]
Qual è il lavoro più apprezzato fin ora ? E il tuo preferito?
Preferisco che siano gli altri a dirlo. Per me sono tutti necessari, sono dei figli non potrei mai sceglierne uno.
I social., quanto sono importanti per te? Come vivi questa dimensione?
Il mio rapporto coi social è abbastanza tranquillo non sono un fan sfegatata della iper-comunicazione ma nemmeno una conservatrice, anche se non escludo la possibilità quando mi va di fare un detox completo, adoro scrivere le lettere e in quelle occasioni è un bel momento per rallentare.
Ritengo che il loro utilizzo consapevole e critico come ogni strumento possa facilitare la comunicazione tra artista e spazio progetto- galleria-istituzione, ma ogni regola ha anche le sue eccezioni.
Inoltre trovo che ci siano degli aspetti molto divertenti legati alla costruzione delle immagini e delle sue possibili narrazioni all’interno dei frame.
Sei stata a Milano, come ha influito su di te questa città ? Il luogo in cui ti trovi ha un influenza su quello che produci? E su di te ?
Ho sempre pendolato tra due realtà, nonostante il più del tempo fossi a Milano non posso dire di averla vissuta nella sua interezza. Milano è una città che si presta molto bene al movimento, adoro la sua frenesia, il suo essere sempre proiettato in avanti. Però non so se ci vivrei per molti anni, ho bisogno di verde e nonostante ci siano stati dei grandi miglioramenti negli ultimi anni siamo ancora molto lontani da modelli come Amsterdam o Stoccolma.
L’ambiente in cui vivo mi condiziona molto, tendenzialmente mi piace l’idea di spostarmi e vivere in luoghi diversi è per me un modo per concentrarmi di più quando devo lavorare duramente e al tempo stesso potermi concedere dei black out completi tornando a casa, un posto che mi immagino verde e profumato.
Cosa vuoi esprimere col tuo lavoro ? Cosa indaghi principalmente?
Non ho un campo di indagine preciso, dipende dal periodo in cui vivo. Sicuramente ci sono delle tematiche a cui sono più affezionata che possono emergere più facilmente negli strati del lavoro, come la relazione con l’altro-lo spazio e l’emotività, un aspetto a cui cerco sempre di prestare attenzione.
Quali sono i tuoi prossimi progetti, obiettivi?
MOMA PS1 lo visualizzo tutte le sere.
Tre giovani artisti che stimi ed ammiri?
Marco D’Agostin, MiamiSafari, Nicole Colombo.
Per approfondire in merito all’artista visitare il sito instagram
per approfondire sul nostro sito con altri artisti visita il sito di Venticento